LA FINE E’ UN NUOVO INIZIO, PER UN’ALTRA STORIA

di Marta Perego con opinione filosofica di Maria Russo

“La fine è un nuovo inizio” ci dicevano le nonne quando da adolescenti i ragazzini ci lasciavano sulle panchine in Brianza dopo un giro in motorino senza casco (ancora si usava così, in una galassia lontana lontana). Oggi i finali ci tramortiscono, intristiscono, deludono.

Lo abbiamo vissuto su scala mondiale con Game of Thrones, la stagione dei record: di spettatori e di lamentele. A nessuno, nemmeno a me e Maria, è piaciuto quel finale scontato, frettoloso, irriconoscente rispetto a un pubblico in attesa e innamorato.

“La cosa più importante sono le storie” dice Tyrion Lannister prima di proclamare Bran Re dei Sette (che poi diventano sei) regni. E mai più di oggi il potere di personaggi e trame che non vogliamo finiscano mai avvolge le nostre serate. Serie tv, saghe. Continui inizi, svolgimenti e finali. Non siamo mai contenti, avremmo sempre voluto altro. Colpa degli sceneggiatori che non si impegnano abbastanza o è colpa nostra che non sappiamo più dire basta?

Era il XVIII quando il romanzo (vi ricordate Jonathan Swift, Richardson e un un po’ di compiti in classe di letteratura inglese) dava dei confini a ciò che di confini prima non ne aveva. Una volta esisteva l’epica, quella delle canzoni e dei poemi e dei menestrelli (che solo dopo finivano su carta) che raccontavano le gesta di signori e cavalieri, in un continuo modificarsi, aggiornarsi, di colpi di scena, di nuovi personaggi.

Poi è arrivato l’Illuminismo, la voglia di certezze, la definizione di confini. E’ arrivato così il romanzo che con la sua trama e i suoi canoni cercava di mettere ordine a ciò che ordine per definizione non ce l’ha: le storie.

Già nell’Ottocento Emile Zola scrive i suoi “cicli” che raccontano la società francese, chili di carta e volumi, personaggi e avventure. Dickens, in Inghilterra, pubblica i romanzi a puntate sui giornali.

Le storie e i personaggi spingevano oltre le pagine, i lettori venivano tanto più conquistati quanto più venivano tenuti in sospeso. E se ci pensiamo, quanti autori del Novecento nonostante cambiassero titoli e nomi dei protagonisti in fondo non approfondivano la stessa storia?

Mi direte, quindi nulla cambia? Sì e no.

Perché oggi la serialità televisiva (e cinematografica) ci ha riportati all’essenza delle storie. Il divertimento, l’affezione, il credere vero ciò che è falso, il perdersi dietro a personaggi, spin-off, il ritorno dei generi.

Chi è cambiato siamo noi. Spettatori e lettori interagenti, che vorremmo modificare l’immutabile, che vorremmo dire la nostra anche quando non è richiesto, ma abbiamo tutti gli strumenti per farlo. Le storie diventano stories e tutti vogliono dire tutto.

Non rendendoci conto che quello che basterebbe poco per essere meno lamentosi e più felici. Accettare le storie degli altri e scrivere, come sempre abbiamo fatto, nella nostra testa o sui social network la nostra. Senza pretendere che sia la migliore, ma soltanto la nostra preferita.

OPINIONE FILOSOFICA DI MARIA RUSSO

L’inverno è finito

Il 2019 è un anno di grandi aspettative e di conseguenti lutti: Avengers, Star Wars e Game of Thrones concludono definitivamente le loro rispettive linee narrative, con il difficile compito di realizzare un finale coerente, complesso ma al contempo lucido, in grado di chiudere tutte le parentesi aperte in anni di capitoli e stagioni. Certo, ci saranno la fase 4 con altri Vendicatori, nuove saghe ispirate all’universo di George Lucas e vari prequel della serie che ha reinventato il genere fantasy, ma queste storie con questi personaggi sono arrivate alla fine. Non sono di certo mancate le critiche all’ottava stagione di Game of Thrones, al punto che alcuni fan hanno lanciato una petizione per rigirare il finale della serie più seguita del nuovo millennio. L’accusa più frequente riguarda la velocità con cui si sono svolti i fatti, nonché l’evoluzione di Daenerys Targaryen da giovane eroina che prometteva l’emancipazione del popolo di Westeros a tiranna completamente invischiata nelle dinamiche autoreferenziali del potere. Il precipitare degli eventi spesso non ha saziato la sete di vedere degli spettatori. Il filosofo Slavoj Žižek ha dedicato un recente articolo a questo problema, sostenendo, con Stephen King, che “l’insoddisfazione non è generata da un cattivo finale, ma dal fatto stesso della fine. Nella nostra epoca di serie che potrebbero andare avanti all’infinito, l’idea di una chiusura narrativa diventa intollerabile.” Tuttavia, non era possibile aspettarsi un lieto fine. Anche in questa ottava stagione Game of Thrones ha rinsaldato il suo legame con la tragedia antica, con l’arco evolutivo dei personaggi che alla fine giunge sempre a riconfermare il ruolo cieco e inspiegabile del destino. Daenerys conferma di essere una Targaryen, Jon di essere un outsider che non può trovare il suo posto nei Sette Regni, Jaimie di non poter scindere un legame pure tossico e patologico come quello con Cersei, Arya di non poter avere una vita “da lady”, Tyrion di non potersi ritirare dai giochi di palazzo. E Bran di essere la memoria, il passato, la Storia e le storie di Westeros. Come ci ricorda Tyrion, nulla è più potente di una buona storia. Solo una buona storia può mantenere i legami tra le casate rimaste, così come solo una buona storia poteva tenere milioni di spettatori incollati davanti al piccolo schermo. Una buona storia che per otto stagioni ci ha mostrato il peso, i rischi, le conseguenze delle libere scelte di personaggi ricchi di contraddizioni e twist narrativi, che hanno testimoniato, per usare un’espressione nietzscheana, di essere diventati ciò che erano. Il futuro era già scritto nel passato, bisognava realizzarlo. E non era affatto scontato che accadesse: ognuno di loro ha avuto mille vie di fuga, occasioni e alternative. Daenerys avrebbe potuto ascoltare i suoi consiglieri, Jon avrebbe potuto assecondare la sua regina, Arya avrebbe potuto sposare Gendry e Jaimie avrebbe potuto restare per sempre a Grande Inverno con Brienne. Così come David Benioff e D. B. Weiss avrebbero potuto consacrare Jon Snow come eroe risolutivo e costruire una climax epica in cui alla fine l’erede delle due casate più importanti avrebbe avuto tra le mani il destino del nuovo mondo. E invece il Re della Notte viene ucciso da una ragazzina e liquidato nei primi tre episodi, dimostrando che alla fine erano molto più temibili le due regine che si contendono il trono, la freddezza calcolatrice di Cersei e la follia isterica di Daenerys. D’altronde, i non morti non hanno desideri, né volontà né obiettivi che vadano oltre l’impulso di cancellare l’umanità e la sua memoria. Dedicare ancora più spazio agli Estranei, a questo paradigma della “morte in sé”, dell’incubo non dell’annichilimento ma dell’impossibilità di morire realmente, di sopravvivere senza individualità e coscienza, avrebbe rischiato di rendere l’ottava stagione un colossale zombie-movie. Gli Estranei sono sempre stati una minaccia più evocata che vissuta, un’inquietante alterità che però non aveva mai attraversato la barriera. Game of Thrones è anzitutto e soprattutto un gioco di dinamiche del potere umano, rappresentato da una ruota che schiaccia destini individuali, tentativi di cambiare la storia, uomini e donne la cui lealtà e pietà diventa un punto di debolezza che gli avversari non esitano a sfruttare. L’inverno è arrivato ed è finito, e finalmente ognuno ha trovato il proprio posto. Dall’indipendenza del Nord all’opportunità di regnare oltre la Barriera, dall’esplorazione di nuove terre alla possibilità di morire tra le braccia della donna che, in fondo, non si ha mai smesso di amare. D’altronde, parafrasando Bran lo Spezzato, altrimenti, perché avremmo fatto tutta questa strada?

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