#FILMOMBRELLONE: i consigli de I TRENTENNI

Anni ’80 e anni ’90 lo sappiamo sono una vera e propria ossessione di massa. Lo testimonia anche il record di visualizzazioni della serie tv Stranger Things, arrivata alla sua terza stagione. Ambientata negli anni ’80, è un atto d’amore nei confronti dei grandi classici di trenta (quasi quaranta) anni fa: da Ritorno al futuro, Stand by me, i Goonies. E, in questa stagione, anche La storia infinita e L’invasione degli ultracorpi.

Questa serie oltre ad essere una delle migliori degli ultimi anni in termini di personaggi, trama e coinvolgimento che genera, ha anche avuto il merito di stimolare l’interesse nei confronti delle nuove generazioni verso il cinema del passato.

Vi presentiamo quindi il secondo ospite dei nostri #filmombrellone: I Trentenni! Tre ragazze che hanno dato vita ad un progetto social divertente e coinvolgente, in cui si raccontano come tre “giovani donne” nel cuore dei trent’anni che non mollano mai. Nel lavoro e nella vita.

I Trentenni è un progetto di Silvia Rossi, Ilaria Sirena e Stefania Rubino. I Trentenni nasce come blog community nel 2013 e diventa subito un punto di riferimento per la generazione cresciuta negli Anni ’90, e raggiunge il successo con le sketch comedy su Youtube che mettono in scena le avventure dei trentenni di oggi con ironia e verità. Il loro primo romanzo “Hai detto trenta?” edito Rizzoli è già alla seconda ristampa. Attualmente la community de I Trentenni ha oltre 350 mila follower.

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ECCO I FILM ANNI ’90 CHE CI CONSIGLIANO

Pulp Fiction

Perché il ballo tra Mia (Uma Thurman) e Vincent Vega (John Travolta) è un cult per la nostra generazione e soprattutto perché è un pezzo importante della storia del cinema che tutti dovrebbero conoscere. L’importante è che non vi chiediate cosa c’è all’interno della valigetta nera, nessuno lo sa…

Edward mani di forbice
Perché consacrò Johnny Depp a mito del cinema e ci fece sognare con la sua storia d’amore cinematografica (e reale) con lei: Winona Ryder. Siamo degli inguaribili romantici.

The Truman Show
Perché è il primo – e unico – “reality show” che continuiamo ad amare.
Questo piccolo film, ispirato a «1984» di George Orwell, è riuscito molto meglio di tanti altri film a raccontarci come sarebbe stato il ventunesimo secolo…quando ancora Facebook e Instagram nemmeno ce li sognavamo.

Ghost
Perché, dai, davvero dobbiamo dirvelo? È tra i film più romantici e commoventi di sempre. E se diciamo “Ti amo”, voi cosa rispondete?

Mediterraneo
Perché “fa bene all’umore”. Ed è stato un film generazionale, un piccolo-grande cult italiano con respiro internazionale. Indimenticabile.

Siete pronti al recuperone? E voi che film anni ’80 e ’90 avete nel cuore?

#FILMOMBRELLONE: i film consigliati da… DANIELA COLLU

L’estate è anche tempo di cinema, o almeno lo speriamo. Con rassegne all’aperto, grandi uscite, le scuse diventano sempre meno credibili. E se, sì è importante essere aggiornati, l’estate è anche il momento per, come a scuola, i recuperi.

Quali sono i film da vedere o rivedere?

Lo chiediamo, tutti i mercoledì, a qualcuno che di cinema se ne intende.

La prima ospite: Daniela Collu.

Conduttrice (tra i vari programmi, Strafactor su Sky Uno), autrice televisiva, blogger (su instagram la trovate come @stazzitta), recentemente è diventata anche scrittrice di successo con “Volevo solo camminare”, divertente diario di bordo e insieme una guida per affrontare il cammino di Santiago.

Laureata in Storia dell’Arte è un’attenta spettatrice.

Ecco i suoi 5 film dell’estate.

Essere John Malkovich, Charlie Kaufman, 1999

Per le notti d’estate in cui non si prende sonno e il caldo vi fa desiderare realtà parallele.

C’eravamo tanto amati, Ettore Scola, 1974

Da trovare nelle arene all’aperto, c’è tutta l’Italia dentro insieme a dei dialoghi da capolavoro

Selfie, Agostino Ferrente, 2019

Ora al cinema, girato interamente con telefoni cellulare, delicato e potente

Brian di Nazareth, con i Monty Python, 1979

Le migliori risate di sempre!

 

Quali sono i vostri #filmdellestate?

CINEMA D’ESTATE: ISCHIA FILM FESTIVAL

CINESEGNALAZIONI

ISCHIA FILM FESTIVAL 2019, UN’ALTRA EDIZIONE STRAORDINARIA
Potrebbe sembrare normale, ma non lo è. Il festival diretto da Michelangelo Messina e Boris Sollazzo stupisce ancora, in attesa della maggiore età. Fino  al 6 luglio

Ischia Film Festival diciassettesimo anno, a un passo dal diventare maggiorenne, ma già grande con un anno di più. Dopo l’incredibile edizione 2018, anche quest’anno il Castello Aragonese di Ischia ospiterà tante stelle, del cinema italiano e non, dal 29 giugno al 6 luglio, grazie al grande lavoro dei direttori artistici Michelangelo Messina e Boris Sollazzo. A partire dai premi alla carriera, assegnati quest’anno a Michele Placido e Valerio Mastandrea. Dopo Gabriele Salvatores, premiato l’anno scorso, e altri grandi nomi del cinema internazionale, come John Turturro, Peter Greenaway e il Maestro Giuliano Montaldo, ecco due attori, poi anche registi, che abbracciano insieme quasi cinquant’anni di storia del cinema italiano. Al primo verrà reso omaggio con l’anteprima mondiale di Stupor Mundi, versione cinematografica del suo spettacolo su Federico II di Svevia. Con Valerio Mastandrea si parlerà della sua opera prima dietro la macchina da presa, Ride.

Anche Alessandro Borghi farà questo passo, prima o poi. Ma prima verrà sull’isola per ricevere l’Ischia Film Award. Un riconoscimento a un attore che negli ultimi anni ha letteralmente incarnato il cinema italiano, con una professionalità e una passione non comuni. E anche vincitore quest’anno del David di Donatello come miglior attore protagonista per la sua straordinaria trasfigurazione in Stefano Cucchi nel film di Alessio Cremonini Sulla mia pelle, che il festival proietterà in omaggio al suo interprete.

Tre generazioni di cinema italiano, ma non ci saranno solo loro a salire sui cinque palchi del Castello. Ancora una volta l’Ischia Film Festival mette insieme il Best of del cinema italiano dell’anno. In ordine sparso: Chiara Martegiani, Lillo, Violante Placido, Alice Rohrwacher, Stasi & Fontana, Vinicio Marchioni, Massimiliano Bruno, Ilenia Pastorelli, Pina Turco, Luca Argentero, Costanza Quatriglio, Radha Mitchell, Alvaro Vitali, Wilma Labate, Nicola Guaglianone, Marina Confalone, Paolo Calabresi,  Claudio Giovannesi con La paranza dei bambini ed Edoardo De Angelis con Il vizio della speranza. Walter Veltroni aprirà il festival il 29 giugno presentando il suo esordio nel lungometraggio di finzione, C’è tempo, film dove c’è anche un magnifico omaggio a Bernando Bertolucci.

Non a caso, perché proprio al grande Maestro del cinema italiano è dedicato un doveroso tributo. Sarà il  Carcere Borbonico del Castello Aragonese a ospitare la mostra realizzata da Antonio Maraldi del Centro Cinema Città di Cesena. Ventitré gigantografie che immergeranno i visitatori nei più suggestivi set cinematografici di Bernardo Bertolucci, da Il conformista a L’ultimo Imperatore. La mostra sarà inaugurata venerdì 28 Giugno e sarà aperta al pubblico fino a sabato 6 Luglio. Ultimo tango a Parigi, non a caso proiettato sullo schermo del Carcere Borbonico, per sottolinearne il carattere rivoluzionario, è il film con cui si renderà omaggio al regista.

UNA MOSTRA CHE E’ COME UN FILM: PICCOLI TASTI, GRANDI FIRME

di Marta Perego

“Voi siete dei manovali, e ogni tasto che battete sulla vostra macchina da scrivere è un mattone che portate alla costruzione di una società migliore, più giusta”– Il consiglio che Arrigo Benedetti, fondatore e direttore di Oggi e L’Espresso, dava ai suoi giornalisti.

A Ivrea, la terra che ha visto nascere e crescere la Olivetti e le sue macchine da scrivere, è in corso fino al 31 dicembre 2019 una bella mostra che racconta il grande giornalismo italiano, al Museo Civico Pier Alessandro Garda.

La mostra vi porta nel cuore della stagione d’oro (1950- 1990) del giornalismo italiano, un periodo storico che coincide, sovrapponendosi e intrecciandosi con l’invenzione, la diffusione e il larghissimo uso delle macchine a scrivere portatili Olivetti, la Lettera 22 in particolare.

“La mostra vuole provare a dire tante cose. Come erano creativi e rivoluzionari i giornali di quei decenni: basta guardare le pagine del Giorno, che nasce nel ‘56, o certe pagine e restyling di Pier Giorgio Maoloni. Come sono stati importanti nella barra delle idee: negli anni ‘70 nascono manifesto, Il Giornale e la Repubblica. Ma basta pensare a certe copertine dell’Espresso i Panorama. Come sapevano essere popolari ma anche di alta qualità informativa: basta vedere l’Europeo o Epoca. Ma soprattutto come erano scritti bene: grazie a penne come Buzzati, Bocca, Montanelli, Fallaci, Parise, Brera, Arpino e decine di altri grandi nomi in bilico tra letteratura e giornalismo. Erano giornali che avevano mille difetti, né più né meno dei nostri. Ma mediamente scritti molto meglio.” Racconta Luigi Mascheroni, giornalista, docente di Teorie e tecniche della comunicazione culturale all’Università Cattolica del Sacro Cuore e curatore della mostra.

Un percorso che attraverso fotografie, taccuini, agende, dattiloscritti, pagine di giornale, riviste, fotografie e disegni (alcuni inediti come il bellissimo autoritratto di Oriana Fallaci), vi farà rivivere gli anni gloriosi del giornalismo. I grandi reportage, le riunioni di redazioni, le rotative che romanticamente nella notte stampavano le notizie che il giorno dopo i lettori avrebbero appreso e letto con passione.

Un mondo che sembra tanto lontano (anche se si tratta in fondo solo di 30/40/50 anni fa) rispetto ad un oggi fatto di social network, instant news, motori di ricerca e fake news che dilagano sui nostri smartphone.

Protagonista assoluta, la scrittura, che rivive sulle pagine di chi ha battuto a macchina attraversando i generi del giornalismo. La “nera” di Buzzati, la cronaca di costume di Camilla Cederna, la polemica politica di Guareschi e Montanelli, le inchieste di Bocca e Biagi, le interviste storiche di Oriana Fallaci, i reportage che sfiorando la letteratura, l’impegno corsaro di Pasolini, la cronaca culturale di Soldati, l’epica sportiva di Arpino e Gianni Brera e i servizi Rai di Beppe Viola.

Una mostra da vivere come un film, immergendosi e lasciandosi trasportare nel tempo. respirando l’odore di carta e inchiostro e di chi, anche grazie all’epoca storica che stava vivendo, ha avuto il coraggio di scrivere quello che vedeva, facendo un pezzo di storia. Descrivendo, argomentando, usando aggettivi e non slogan. Tutta da guardare e da leggere, come il suo catalogo edito da La nave di Teseo. 

O come quei grandi film, uno su tutti Prima pagina di Billy Wilder, che a riguardarli è subito nostalgia, anche per chi quell’epoca non l’ha mai vissuta, ma tanto avrebbe voluto.

 

LA FINE E’ UN NUOVO INIZIO, PER UN’ALTRA STORIA

di Marta Perego con opinione filosofica di Maria Russo

“La fine è un nuovo inizio” ci dicevano le nonne quando da adolescenti i ragazzini ci lasciavano sulle panchine in Brianza dopo un giro in motorino senza casco (ancora si usava così, in una galassia lontana lontana). Oggi i finali ci tramortiscono, intristiscono, deludono.

Lo abbiamo vissuto su scala mondiale con Game of Thrones, la stagione dei record: di spettatori e di lamentele. A nessuno, nemmeno a me e Maria, è piaciuto quel finale scontato, frettoloso, irriconoscente rispetto a un pubblico in attesa e innamorato.

“La cosa più importante sono le storie” dice Tyrion Lannister prima di proclamare Bran Re dei Sette (che poi diventano sei) regni. E mai più di oggi il potere di personaggi e trame che non vogliamo finiscano mai avvolge le nostre serate. Serie tv, saghe. Continui inizi, svolgimenti e finali. Non siamo mai contenti, avremmo sempre voluto altro. Colpa degli sceneggiatori che non si impegnano abbastanza o è colpa nostra che non sappiamo più dire basta?

Era il XVIII quando il romanzo (vi ricordate Jonathan Swift, Richardson e un un po’ di compiti in classe di letteratura inglese) dava dei confini a ciò che di confini prima non ne aveva. Una volta esisteva l’epica, quella delle canzoni e dei poemi e dei menestrelli (che solo dopo finivano su carta) che raccontavano le gesta di signori e cavalieri, in un continuo modificarsi, aggiornarsi, di colpi di scena, di nuovi personaggi.

Poi è arrivato l’Illuminismo, la voglia di certezze, la definizione di confini. E’ arrivato così il romanzo che con la sua trama e i suoi canoni cercava di mettere ordine a ciò che ordine per definizione non ce l’ha: le storie.

Già nell’Ottocento Emile Zola scrive i suoi “cicli” che raccontano la società francese, chili di carta e volumi, personaggi e avventure. Dickens, in Inghilterra, pubblica i romanzi a puntate sui giornali.

Le storie e i personaggi spingevano oltre le pagine, i lettori venivano tanto più conquistati quanto più venivano tenuti in sospeso. E se ci pensiamo, quanti autori del Novecento nonostante cambiassero titoli e nomi dei protagonisti in fondo non approfondivano la stessa storia?

Mi direte, quindi nulla cambia? Sì e no.

Perché oggi la serialità televisiva (e cinematografica) ci ha riportati all’essenza delle storie. Il divertimento, l’affezione, il credere vero ciò che è falso, il perdersi dietro a personaggi, spin-off, il ritorno dei generi.

Chi è cambiato siamo noi. Spettatori e lettori interagenti, che vorremmo modificare l’immutabile, che vorremmo dire la nostra anche quando non è richiesto, ma abbiamo tutti gli strumenti per farlo. Le storie diventano stories e tutti vogliono dire tutto.

Non rendendoci conto che quello che basterebbe poco per essere meno lamentosi e più felici. Accettare le storie degli altri e scrivere, come sempre abbiamo fatto, nella nostra testa o sui social network la nostra. Senza pretendere che sia la migliore, ma soltanto la nostra preferita.

OPINIONE FILOSOFICA DI MARIA RUSSO

L’inverno è finito

Il 2019 è un anno di grandi aspettative e di conseguenti lutti: Avengers, Star Wars e Game of Thrones concludono definitivamente le loro rispettive linee narrative, con il difficile compito di realizzare un finale coerente, complesso ma al contempo lucido, in grado di chiudere tutte le parentesi aperte in anni di capitoli e stagioni. Certo, ci saranno la fase 4 con altri Vendicatori, nuove saghe ispirate all’universo di George Lucas e vari prequel della serie che ha reinventato il genere fantasy, ma queste storie con questi personaggi sono arrivate alla fine. Non sono di certo mancate le critiche all’ottava stagione di Game of Thrones, al punto che alcuni fan hanno lanciato una petizione per rigirare il finale della serie più seguita del nuovo millennio. L’accusa più frequente riguarda la velocità con cui si sono svolti i fatti, nonché l’evoluzione di Daenerys Targaryen da giovane eroina che prometteva l’emancipazione del popolo di Westeros a tiranna completamente invischiata nelle dinamiche autoreferenziali del potere. Il precipitare degli eventi spesso non ha saziato la sete di vedere degli spettatori. Il filosofo Slavoj Žižek ha dedicato un recente articolo a questo problema, sostenendo, con Stephen King, che “l’insoddisfazione non è generata da un cattivo finale, ma dal fatto stesso della fine. Nella nostra epoca di serie che potrebbero andare avanti all’infinito, l’idea di una chiusura narrativa diventa intollerabile.” Tuttavia, non era possibile aspettarsi un lieto fine. Anche in questa ottava stagione Game of Thrones ha rinsaldato il suo legame con la tragedia antica, con l’arco evolutivo dei personaggi che alla fine giunge sempre a riconfermare il ruolo cieco e inspiegabile del destino. Daenerys conferma di essere una Targaryen, Jon di essere un outsider che non può trovare il suo posto nei Sette Regni, Jaimie di non poter scindere un legame pure tossico e patologico come quello con Cersei, Arya di non poter avere una vita “da lady”, Tyrion di non potersi ritirare dai giochi di palazzo. E Bran di essere la memoria, il passato, la Storia e le storie di Westeros. Come ci ricorda Tyrion, nulla è più potente di una buona storia. Solo una buona storia può mantenere i legami tra le casate rimaste, così come solo una buona storia poteva tenere milioni di spettatori incollati davanti al piccolo schermo. Una buona storia che per otto stagioni ci ha mostrato il peso, i rischi, le conseguenze delle libere scelte di personaggi ricchi di contraddizioni e twist narrativi, che hanno testimoniato, per usare un’espressione nietzscheana, di essere diventati ciò che erano. Il futuro era già scritto nel passato, bisognava realizzarlo. E non era affatto scontato che accadesse: ognuno di loro ha avuto mille vie di fuga, occasioni e alternative. Daenerys avrebbe potuto ascoltare i suoi consiglieri, Jon avrebbe potuto assecondare la sua regina, Arya avrebbe potuto sposare Gendry e Jaimie avrebbe potuto restare per sempre a Grande Inverno con Brienne. Così come David Benioff e D. B. Weiss avrebbero potuto consacrare Jon Snow come eroe risolutivo e costruire una climax epica in cui alla fine l’erede delle due casate più importanti avrebbe avuto tra le mani il destino del nuovo mondo. E invece il Re della Notte viene ucciso da una ragazzina e liquidato nei primi tre episodi, dimostrando che alla fine erano molto più temibili le due regine che si contendono il trono, la freddezza calcolatrice di Cersei e la follia isterica di Daenerys. D’altronde, i non morti non hanno desideri, né volontà né obiettivi che vadano oltre l’impulso di cancellare l’umanità e la sua memoria. Dedicare ancora più spazio agli Estranei, a questo paradigma della “morte in sé”, dell’incubo non dell’annichilimento ma dell’impossibilità di morire realmente, di sopravvivere senza individualità e coscienza, avrebbe rischiato di rendere l’ottava stagione un colossale zombie-movie. Gli Estranei sono sempre stati una minaccia più evocata che vissuta, un’inquietante alterità che però non aveva mai attraversato la barriera. Game of Thrones è anzitutto e soprattutto un gioco di dinamiche del potere umano, rappresentato da una ruota che schiaccia destini individuali, tentativi di cambiare la storia, uomini e donne la cui lealtà e pietà diventa un punto di debolezza che gli avversari non esitano a sfruttare. L’inverno è arrivato ed è finito, e finalmente ognuno ha trovato il proprio posto. Dall’indipendenza del Nord all’opportunità di regnare oltre la Barriera, dall’esplorazione di nuove terre alla possibilità di morire tra le braccia della donna che, in fondo, non si ha mai smesso di amare. D’altronde, parafrasando Bran lo Spezzato, altrimenti, perché avremmo fatto tutta questa strada?

PUPI AVATI E I SUOI SEGRETI AL FESTIVAL DELLA PAROLA DI CHIAVARI

di Marta Perego

Più giovane di qualsiasi giovane, Pupi Avati, 81 anni, sangue bolognese ribollente nelle vene, ha incantato il pubblico del Festival della Parola di Chiavari, di fronte ad un pubblico da grandi occasioni, divertito dai toni da farsa e commedia del regista de Il papà di Giovanna.

Pupi ha incantato il pubblico con i suoi cavalli di battaglia: l’incontro con Lucio Dalla, mentre lui era un giovane clarinettista che si faceva largo in una jazz band bolognese formata da ginecologi (La Doctor Dixie Jazz band).

“La prima volta che l’ho incontrato l’ho visto lì, bruttino, tutto ingrugnito, l’ho sentito suonare e non era per niente capace!”

Ma poi il talento è sceso su di lui e durante una lunga tournèe in giro per l’Europa Lucio è diventato Lucio Dalla, mentre Pupi ha capito che dalla musica non avrebbe potuto avere quello che cercava.

“Una sera suonavamo in centro a Bologna, nel locale è arrivato Gino Paoli, ha sentito suonare Lucio e poi ha voluto parlargli”

Iniziava così la carriera di uno dei nostri più grandi cantautori, mentre quella di Pupi, nella musica, evaporava.

“Non lo sopportavo più, in tournèe a Barcellona siamo saliti sulla Sagrada Familia, volevo buttarlo di sotto”.

Ma nella vita dei grandi gli ostacoli sono fatti per essere superati, ed è nel momento in cui si sente fallire nella musica che Pupi capisce la sua passione per il cinema.

Esordisce seguendo la sua passione per il cinema dell’orrore.

Il primo si intitola Balsamus l’uomo di Satana, il secondo è Thomas e gli indemoniati dove scopre e lancia un’allora esordiente Mariangela Melato. E’ il 1968. Pupi non aveva scelto questo topino con gli occhi grandi, ma una sua collega di corso di teatro che assomigliava a Grace Kelly.

La sosia di Grace però non poteva andare a Ferrara e ha mandato l’amica Mariangela.

“Non credo sia mai successo nella storia del cinema che un’attrice abbia mandato un’altra…” dice Pupi divertito.

In realtà è successo. Lui non l’ha voluta subito. Mariangela è stata ad aspettare fuori dalla chiesa sconsacrata dove si effettuavano le riprese per ore. Alla fine Pupi si è convinto, l’ha fatta recitare e tutti sono rimasti in silenzio di fronte a questa ragazzetta dai capelli corti ma bravissima.

“Quella che trasferiva Mariangela era la verità del cinema”.

Oggi sono passati cinquant’anni e tanti film. Il prossimo, lo ha detto in conferenza a Chiavari, sarà dedicato a Dante

“Proprio mentre venivo qui ho ricevuto una telefonata, in cui mi dicevano che la settimana prossima firmiamo per il film su Dante: è un progetto che ho in mente da diciotto anni, i primi scambi di lettere con la Rai risalgono addirittura al 2001…”.

“Non ho nessuna intenzione di far vedere Dante col nasone. Dante non lo si vedrà mai. La chiave vincente è raccontarlo attraverso Giovanni Boccaccio che è stato il suo primo biografo: sarà una sorta di indagine, di investigazione. Ci sono tante cose su Dante che gli italiani non sanno… ”

E per il ruolo di Boccaccio vorrebbe Al Pacino.

Restiamo in attesa.

CARLOTTA FERLITO: LA RAGAZZA COI SUPERPOTERI

di Marta Perego

Per la prima volta nella storia del Rimini Wellness 2019 gli incredibili poteri dei supereroi mutanti protagonisti del nuovo film in uscita il 6 giugno, “X-Men: Dark Phoenix” incontrano l’energia di XTEMPO – TRAINING SYSTEM, il programma di allenamento capace di elettrizzare tutto il popolo del wellness previsto tutti i giorni, fino al 2 giugno.

Sui palchi CRUISIN’ al padiglione D5, il fitness si è trasformato in uno show sorprendente dove chiunque può testare la propria forza, resistenza, energia e passione con le lezioni di X-tempo, spring energie, aerodance e fitness musicale, in un mix pronto a scatenare il potere interiore di ogni partecipante.

 

Ospite d’eccezione Carlotta Ferlito, tre le ginnaste più talentuose della Nazionale italiana di ginnastica artistica, che si è unita ai partecipanti nel programma di allenamento degli X-Men con tutta la sua incredibile energia.

Carlotta non è solo una delle più grandi ginnaste italiane, ma è anche una star del web. Grazie ai programmi televisivi Ginnaste- vite parallele e Dance, Dance, Dance è diventata un esempio per tante ragazze, raggiungendo più di 690 mila followers su Instagram.

Carlotta, come ti senti ad essere associata a Dark Phoenix, il personaggio interpretato da Sophie Turner in X-Men?

Sembrerà banale, ma con lei sento una grande affinità. E’ una ragazza forte, capace di rialzarsi e diventare più forte di prima. Sono state tante le volte che mi sono sentita come lei.

Per esempio?

Non so farti esempi specifici… tutti i giorni! Quando ero più piccola se un allenamento andava male pensavo di mollare tutto, di non farcela. Poi ho capito che non bisogna fermarsi ai primi ostacoli, ma andare avanti, dimenticandosi in fretta delle giornate storte.

Ci sono persona che ti hanno aiutata in questo percorso?

Sì, mia mamma soprattutto. Mi ha sempre spronata a ragionare e a non essere impulsiva.

Quando hai capito di potercela fare, che la ginnastica sarebbe stata il tuo futuro

Ho avuto tante soddisfazioni. Le Olimpiadi sicuramente (ndR ha partecipato a Londra nel 2012 e a Rio nel 2016), ma il ricordo che ho più nel cuore è la gara giovanile del 2010, non mi aspettavo niente, ho vinto 3 medaglie, lì ho capito che valevo qualcosa.

Ora quali sono i tuoi obiettivi?

L’Università! Mi sono iscritta a Comunicazione e Pubblicità allo IULM di Milano. Mi è sempre piaciuto comunicare, l’ho fatto in tv, lo faccio sui social. Lo considero la mia vocazione insieme alla ginnastica. Mi hanno molto criticata in passato per non aver pensato solo ad “allenarmi”. Alla fine però avevo ragione io.

Tu hai una grande seguito, soprattutto su Instagram, come trovi un equilibrio tra la condivisione social e la vita privata?

Mi viene tutto molto naturale. All’inizio pensavo che a chi mi seguiva interessasse solo la ginnastica, invece ho tante ragazze che mi chiedono consigli di beauty e make up. Sento di certo una responsabilità per chi mi segue, quello che cerco di dare, sempre, è un messaggio positivo. Bisogna credere in se stessi e non porsi autolimiti. Io ho sempre fatto tante cose, il liceo, la ginnastica, la tv e ce l’ho fatta. Il messaggio che cerco di dare alle ragazze e ai ragazzi più piccoli di me è non fermarsi, se si ha un sogno di crederci.

Chi sono i tuoi esempi cinematografici?

Sicuramente Emma Watson, sono una superfan di Harry Potter. E Anne Hathaway, è la mia attrice preferita. Il Diavolo veste Prada è il mio film del cuore.

 

 

Il caso Pamela Prati, il romanzo d’appendice, i red carpet di Cannes e i draghi

di Marta Perego

Sono state settimane concitate, tra red carpet scintillanti dalla montée des marches, vestiti sbagliati (quello di Margot Robbie), azzeccatissimi (Elle Fanning), grandi star (Leonardo Di Caprio e Brad Pitt, registi che pare (io non l’ho visto, ho letto chi c’era) hanno fatto un buco nell’acqua (Quentin Tarantino). Film di cui più della metà non verranno visti da nessuno, se non il bellissimo “Dolor y Gloria” di Almodovar  e Il traditore di Bellocchio, già nelle sale.

E’ finita l’epopea della serialità che ha tenuto incollati milioni di spettatori in tutto il mondo per otto lunghe stagioni e tanta amarezza, per un finale scontato, affrettato, mal raccontato (Game of Thrones).

Intanto avanzava in televisione il caso che ci ha immobilizzati. Che ha piano piano conquistato tutti, anche chi “io la televisione non la guardo mai”. E ha vinto tutto quello che c’era da vincere.

Premio alle migliori interpretazioni, al migliore intreccio, distopia, iperrealtà, assurdità.

Perché dietro al “Pamela Prati affaire” sta una costruzione narrativa perfetta.

Mi astengo dai giudizi di merito. Quella che sto scrivendo non è un’analisi morale, nè legale. Non ho informatori, non so quanto sia vero e quanto sia falso. La mia è un’analisi critica, da spettatrice appassionata che mercoledì sera è rimasta incollata a “Non è la D’Urso Live” come nemmeno mi era successo per l’ultima puntata di Lost (di cui ci ho capito ancora meno di quanto abbia capito di Eliana Michelazzo).

Quella che è stata costruita è una trama gialla perfetta. Esiste un mistero, esistono delle vittime, esistono dei colpevoli. Esistono mariti che non esistono (come direbbe Maccio Capatonda), villain potenti che si muovono nell’oscurità per non si sa bene quale ragione. Il denaro? Il potere? La celebrità? Il grande ritorno sulle scene?

Ci sono anche elementi pruriginosi, il sesso virtuale tra Eliana e il suo marito (falso) che avrebbe dovuto fare il “magistrato antimafia minorile” – che poi, lei dice, ho scoperto che nemmeno esisteva-. Bugie, accuse reciproche. Eliana Michelazzo e Pamela Perricciolo sono veramente amanti lesbiche che hanno tessuto una tela per farsi largo nello scintillante mondo delle prime serate tv?

C’è lo sdegno degli opinionisti che guardando in camera manifestano il loro sdegno. “Non si tratta il pubblico così”.

E poi ci siamo noi, spettatori, attoniti di fronte all’esibizione di sentimenti, probabilmente finti o, prendendo in prestito il titolo di un bel libro, tanto veri quanto la finzione.

Palma D’Oro a Barbara D’Urso, straordinaria condottiera, storyteller magnifica, che tra una pausa pubblicitaria e l’altra ci ha coinvolti, ammaliati, lasciati sbigottiti.

Altro che romanzo d’appendice, altro che festival che vietano i selfie alle celebrities, altro che serie tv. Quella che stiamo assistendo in tv è la fiction più bella dell’anno. Una presa in giro colossale, forse, ma chi se ne importa, l’importante è che ci abbia appassionati.

Come diceva David Frost “La televisione è un’invenzione che vi permette di farvi intrattenere nel vostro soggiorno da gente che non vorreste mai avere in casa”

Altro che draghi.

 

 

 

PERCHE’ AMIAMO DUMBO

Sta scalando i vertici del box office, commuovendo e conquistando grandi e piccini. A me e Maria il Dumbo secondo Tim Burton è piaciuto e non poco.

Non solo un remake in live action del famoso cartone animato del 1941 fatto in fretta e furia dalla Disney per coprire le perdite di Fantasia (capolavoro ma che all’epoca non era  piaciuto per niente dal pubblico), ma un vero e proprio sequel con personaggi e storie nuove, tra cui la conturbante trapezista volante interpretata da Eva Green.

Dumbo, con le sue dolci orecchie all’insù, racconta la diversità e la sua bellezza. Nel film di Burton alla fine si trasforma in un supereroe che più di Aquaman e con la stessa prontezza di Spiderman, affronta rischi e fiamme con coraggio.

Un novello Edward Mani di Forbice, con una proboscide tutta da abbracciare.

Chi non si è mai sentito almeno una volta nella vita Jumbo Dumbo?

Ecco l’interpretazione filosofica di Maria e la recensione di Amedea, 10 anni.

In questa produzione Disney la poetica di Tim Burton ha forse dovuto abbandonare le sfumature più esplicitamente dark, ma non rinuncia ai temi più cari del regista che da sempre ha saputo ripensare il mondo delle favole. Ancora una volta, al centro della vicenda ci sono dei freaks, che si raccolgono nel clan del circo (una famiglia decisamente poco tradizionale) e vagabondano per gli Stati Uniti che sono appena usciti dal primo conflitto mondiale. La diversità e l’emarginazione sono chiaramente i temi al centro della narrazione, laddove i veri “mostri” sono imprenditori senza scrupolo e narcisisti megalomani. Eppure, al di là dell’apologetica della anormalità (che ha come bersaglio polemico il consueto ordine borghese e benpensante), ciò che interessa a Burton è l’evoluzione dell’identità attraverso le dinamiche relazionali dei personaggi. Il ruolo chiave in questo senso è svolto dalla piccola Milly, che ha, non a caso, sogni differenti dagli stereotipi di una bambina della sua età. Non vuole un costume luccicante e farsi guardare dagli altri, come esplicitamente dice in una battuta a suo padre, ma seguire la strada di un’eroina femminile sui generis per il suo contesto storico, ossia Madame Curie. Il passaggio dalla sua infanzia all’età adulta è rappresentato dal suo rapporto con l’oggetto magico (la piuma di Dumbo, la chiave che porta al collo in ricordo di sua madre): non c’è bisogno dell’oggettivazione del sentimento per ricordare coloro che amiamo o per trovare coraggio e fiducia in se stessi. Magia e scienza si intrecciano in questo live action dove coloro che hanno qualcosa di diverso (le orecchie di Dumbo) o in meno (Hult ha perso un braccio in guerra) hanno delle potenzialità rare e straordinarie. Questo va oltre l’accettazione e il rispetto per le forme di vita differenti da un presunto standard identitario e sociale. Dumbo è molto più di un elefante, così come Hult è molto più di un soldato e di un cowboy, anche se poi entrambi, alla fine della pellicola, tornano a riabitare il loro spazio originario. Il circo, questa eterotopia ambulante (per utilizzare l’espressione di Michel Foucault, filosofo che ha ricostruito genealogicamente l’intreccio tra pensiero dominante ed emarginazione), è il luogo dove questi personaggi possono infine ritrovarsi ed essere se stessi. In un’ambientazione vintage e una scenografia modesta, che non ha niente a che vedere con la Dreamland degli investimenti e degli interessi economici, che più che un parco delle meraviglie è palesemente una distopia del capitale.

Ad Amedea (10 anni) è piaciuto perché: “è una storia che rappresenta l’amore tra mamma e figlio ed è un amore che riesce perfino a vincere il cattivo che pensa solo ai soldi”.

 

DOLCEROMA- TRA FUMETTO E GENERE UN FILM CHE RACCONTA IL CINEMA

di Marta Perego

 

Un film fumettoso e adrenalinico che mescola i generi con un Luca Barbareschi, che veste i panni di un produttore cinematografico senza scrupoli, che esce dalle fiamme con la katana.

Questo è Dolceroma di Fabio Resinaro, il regista milanese classe 1980, che con Fabio Guaglione aveva firmato Mine.

Un film che, attraverso l’ironia e i generi, racconta il mondo del cinema, con giovani registi schiacciati da grandi produttori. Ricatti, bugie, sotterfugi. In una Roma cattiva, corrotta, che invece che puntare sul talento, guarda al suo ombelico. Ognuno gioca il suo ruolo nella scalata e nel mantenimento del potere. A metà tra un videogioco e Suburra, un remix di cinema italiano, dove il tema principale è quello che coinvolge il cinema ma anche tutto il nostro paese, gli scontri generazionali.

Abbiamo intervistato i due protagonisti del film: Luca Barbareschi nei panni del “vecchio” produttore che tarpa le ali alle nuove generazioni e Lorenzo Richelmy, protagonista della serie tv Marco Polo e di film come La ragazza nella nebbia. È lui il “giovane” regista schiacciato.

E voi cosa ne pensate? Questo “nuovo cinema italiano” vi piace?

INTERVISTA A LUCA BARBARESCHI

Anche produttore del film. Interpreta Oscar Martello, produttore senza scrupoli, egomaniaco e intransigente.

Come è arrivato al ruolo?

 Perché non lo voleva fare nessuno. Ho chiamato tanti attori, ma alcuni erano occupati, altri rivedevano nel personaggio dei produttori loro amici, altri non volevano lavorare con me perché stavo producendo il film di Fausto Brizzi ed era appena scoppiato il #metoo. Quindi l’ho fatto io e sono contento. È un personaggio che è me potenziato, ci ho messo la mia esperienza, la mia intransigenza, il mio sense of humor.

L’immagine del mondo del cinema è terribile: un mondo falso, bugiardo e approfittatore. Quanto c’è di vero?

 Tutto. È un mondo che ti mangia, dannato. Se pensi ai grandi talenti che si sono autodistrutti per il cinema: Philip Seymour Hoffman, Robin Williams. Avevano tutto e sono sprofondati in loro stessi. Anche io ho vissuto di eccessi, ma poi mi sono salvato.

Come mai secondo lei il successo porta all’autodistruzione?

Perché sono mestieri destabilizzanti. Quando hai successo, diventa tutto troppo. La fama, la gente che ti riconosce, i soldi. Poi arrivano periodi in cui tutto questo finisce e arriva la depressione. Si vive in costante disequilibrio. Io ho trovato il mio equilibrio vent’anni fa grazie al rehab, al lavoro su me stesso e al lavoro stesso. Fare l’attore, il produttore, vivere nella cultura mi ha offerto la possibilità di rielaborazione. Ma ti puoi solo salvare da solo, l’amore, la famiglia, non c’entrano niente. Non puoi buttare su di loro i tuoi buchi.

Nel film c’è un tema importante: lo scontro generazionale. Oggi è più difficile essere giovani di ieri?

 Oggi è molto più difficile. Il cinema è un settore in evoluzione. Io sono diventato famoso quando l’artista diventava un brand. Io sono Barbareschi indipendentemente dai film che faccio. Oggi no. Ci sono i prodotti cinematografici che si mangiano l’attore. Un attore diventa famoso per un personaggio che interpreta e può essere sostituito in qualsiasi momento tanto non interessa a nessuno. Non c’è più uno star system, anche in Italia.

Una cosa che vedo nei giovani è che c’è molta più spocchia. Gente che è sconosciuta che si rifiuta di fare interviste, è sempre occupata, non si dedica alla promozione. Io faccio sempre tutto, sostengo i miei film, i miei spettacoli, più che posso.

Lei è produttore, attore, direttore artistico del teatro Eliseo… ex parlamentare, oggi la politica le interessa meno?

Non mi interessa più perché io non le interesso. Vorrei sentire più parlare di cultura. Non è possibile che in Italia con tutto il nostro patrimonio, non si parli mai di cultura. Nel mondo tutti ci stimano e copiano, noi ci dimentichiamo chi siamo.

 

INTERVISTA A LORENZO RICHELMY

Nel film è Andrea Serrano, scrittore sognatore, che si ritrova a progettare un film con il mega produttore Oscar Martello.

Giovani- vecchi. Il contrasto generazionale è il centro del film…

Lo è perché questo è il grande tema in Italia. Viviamo in un sistema che non accoglie le nuove generazioni, anche se ormai hanno più di trent’anni. Non sa chi sono, cosa vogliono e li respinge.

Anche tu hai vissuto delle difficoltà da “giovane attore”?

Sì certo. Fare l’attore è comunque scendere sempre a compromessi perché i film sono dei registi. È difficile per le nuove generazioni trovare uno spazio. Però stanno succedendo delle cose, c’è una nuova generazione di registi coraggiosi e mi riferisco a Fabio Resinaro, Matteo Rovere che ha firmato il Primo re. Film del genere che cercano una nuova strada fino a qualche anno fa erano impensabili.

 Cosa vorresti dal cinema e dalle “vecchie” generazioni?

Che dessero più fiducia agli attori. Abbiamo una uova generazioni di attori bravissimi – come Alessandro Borghi per esempio fresco di David di Donatello-, in grado di competere con i colleghi internazionali e di conquistare Hollywood. Il rilancio del cinema italiano ripartirà da loro, ne sono convinto.