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La domanda che tutti fanno, i fan più o meno accaniti, è: ma rispetto agli altri è meglio?
Non so da quando è partita questa ansia di classifiche. Io lo ammetto dall’inizio: le classifiche non sono mai riuscita a farle.
Però posso dire che C’era una volta a Hollywood è un film di Tarantino. E non solo, è il film in cui Tarantino butta quanto più può di sé stesso. E il suo sé stesso significa: amore incondizionato per il cinema.
“C’era una volta a Hollywood” è un film sul cinema. Sull’industria, sulle idee, sul successo che arriva e magari poi se ne va. Ed è un film di Tarantino, con la sua passione per il passato, il mescolamento, il genere, il cinema italiano degli anni ’60 e ’70.
Siamo nel 1969, in quell’anno in cui il cinema hollywoodiano sta cambiando. Arrivano gli autori, alcuni geniali dall’Europa, come Roman Polanski, esce “Easy Rider”, la pellicola che idealmente fa da spartiacque tra il cinema di prima e quello che sarebbe arrivato dopo. Si sente la brezza della New Hollywood, che essendo cosa nuova, fa apparire tutto quello che c’è stato prima come vecchio e vetusto. E vecchio e vetusto, agli occhi del nuovo cinema, è Rick Dalton, l’attore che ha le fattezze di Leonardo Di Caprio, un ex cowboy della televisione degli anni ’50, che ha vissuto un’epoca di grande fama e successo ma che non è mai riuscito a diventare Steve McQueen e quindi, a detta del suo produttore, l’unica sua alternativa è volare a Roma per fare il protagonista di uno spaghetti western.
La sua disperazione e il suo senso di fallimento sono riversati sul suo esilarante amico, nonché sua controfigura Cliff Booth (Brad Pitt, bello, simpatico, irresistibile).
Intanto arriva come suo vicino di casa l’autore di cui tutti parlano: Roman Polanski, il genio di Rosemary’s Baby. E’ qui che si intreccia la storia con la fantasia. Con una biondissima e ingenua Sharon Tate (Margot Robbie) che passeggia felice per le vie di Los Angeles ed entra nei cinema per vedere un film in cui ha una parte ed entra senza pagare il biglietto (come aveva fatto lo stesso Quentin per il suo primissimo film), inconsapevole che da lì a poco la sua vita perfetta sarebbe stata distrutta dalla follia omicida e senza pietà della setta di Charles Manson.
Ma il cinema può tutto, secondo Quentin Tarantino, anche inventarsi dei finali diversi della storia, come era successo in Inglorious Basterds.
Tutti ne parlano, tutti la vogliono, nessuno la capisce (o meglio: nessuno capisce come sia arrivata dove è arrivata) e per questo la stimano. Chiara Ferragni è un mistero, un sogno, una grande invidia, una fonte di curiosità e frustrazione.
Ma non solo.
Chiara Ferragni è la vera grande diva di Venezia76?
Di certo lo è sul fronte “cinema italiano” in cui di attrici sì, ne son arrivate, ma si è trattato più che altro di comparse che hanno lasciato poco o nulla in termini cinematografici e di stile. E nessuna attrice italiana può essere lontanamente paragonata a Chiara in termini di fan base e seguito (social e non solo dato che sono migliaia le ragazzine che affollano il lido per avere un selfie con lei).
La Ferragni arriva a Venezia in una modalità completamente nuova per una “influencer”. Infatti non come i suoi altri colleghi (ne abbiamo visti veramente tanti in questa edizione, sempre di più anno dopo anno dopo anno) e come lo era stata lei in passato ( un paio di anni fa mostrava già i segni del pancino di Leone, la prima volta a Venezia era stata nel 2011 quando ancora non era famosa) da “GUEST STAR” con un bel vestito da immortalare sul red carpet, ma protagonista, nei panni di se stessa, del film documentario sulla sua vita.
Ma come mai è così amata? Chiede chi ha più di 25 anni
La Ferragni è amata perché rappresenta il grande mantra contemporaneo: è una ragazza che da sola, senza particolari sostegni (sì certo, viene da una molto benestante famiglia di Cremona, ma quante altre come lei oggi sono famose in tutto il mondo? sì certo ha avuto il famoso ex fidanzato genio di Internet e dei social che l’ha aiutata e le ha dato un’idea imprenditoriale, ma non era Steve Jobs…erano due ragazzi con delle ottime idee) ha creato un impero basato sull’unica cosa che oggi conta: il proprio aspetto.
Chiara Ferragni è il brand di sé stessa. Il suo volto, i suoi capelli biondi, gli orecchini, la scelta di indossare i minipants di pelle per sbarcare al Lido, il bacio a Fedez, le foto a Leoncino, sono la linfa vitale della sua azienda. In poche parole lei è un’azienda. Tanto più dal 2018 è diventata Presidente e amministratore delegato della sua Tbs Crew (da The Bond Salad, il blog da cui tutto è partito)
Che è una cosa che in passato succedeva solo per i super divi hollywoodiani che con il loro volto creavano un indotto (derivato da pubblicità, film e campagne varie) pari al debito pubblico di molti paesi africani.
Oggi invece, una ragazza di Cremona a cui piaceva farsi le foto con i vestiti ce l’ha fatta, ed è diventata la numero uno nel mondo. La più attesa al Lido, con code chilometriche alle proiezioni stampa e centinaia di fan.
E se però con il termine “divo”, coniato in Italia nell’800 nel mondo dell’opera lirica e rubato dagli americani quando hanno deciso di fare il cinema, si presuppone una dose di segreto e di fragilità, con #chiaraneverstop di “segreto e fragilità” è difficile parlare.
Lei che si racconta da sola ai suoi fan, attraverso le stories di Instagram. Senza filtri, senza domande di giornalisti, ma come se fosse un unico continuo grande film, in cui la regista ( e fotografa e scenografa e sceneggiatrice) rimane sempre lei: Chiara Ferragni. E forse il film documentario portato a Venezia fa parte di questo grande disegno. Una grande celebrazione, con poco approfondimento emotivo (non esiste fallimento, quello, se c’è, va taciuto) di colei che, questo è un fatto, è volto e immagine del momento storico che stiamo vivendo. Iper narcisista, iper egotico. Dove tutto è una pubblicità, una messa in scena della parte migliore di sé.
Cosa che in effetti, con il cinema, c’entra molto poco.
E quindi no, Chiara non è una “diva”, per lei ci vuole una definizione nuova, che ancora non sappiamo quale sia. Magari aspettiamo il prossimo hashtag, di colei che, fino adesso, non ha sbagliato nulla.
Meryl Streep veste i panni di una vedova che non si arrende di fronte ad una frode assicurativa in The Laundromat, il bel film di Steven Soderbergh che affronta un tema complicato: l’alta finanza e il sistema di riciclaggio di miliardi di dollari derivati da attività criminali. Scarlett Johansson quelli di una donna che si scontra con la fine del suo matrimonio in Marriage Story , Catherine Deneuve in La verità è una diva egocentrica e viziata che fa i conti con la sua famiglia, Kristen Stewart indossa i anni di Jean Seberg, l’attrice simbolo della Nouvelle vague morta suicida nel 1979. E poi è arrivata Chiara Ferragni, la super influencer, da 17 milioni di follower che richiama centinaia di giovani fan con un documentario sulla sua vita.
Sono le donne, nonostante le polemiche, le protagoniste di VENEZIA 76. Diverse, sfaccettate, realmente esistite, viventi oppure no, personaggi fittizi nati nella mente di registi e sceneggiatori.
Mai si erano visti alla mostra del cinema così tanti personaggi femminili.
Ieri anteprima mondiale qui a Venezia del film più atteso :Joker. In uscita il 3 ottobre in Italia
Poche parole alla conferenza stampa, come suo solito, ma un red carpet generoso in cui oltre alla sua nuova fidanzata Rooney Mara, si è presentata anche Cate Blanchett è un corteo di star.
Joaquin Phoenix si è presentato cosi a Venezia 76 con il film per cui tutti già parlano di Oscar. Scroscio di applausi alla proiezione con il pubblico e accoglienza calorosa anche alla proiezione stampa.
Come erano stati Roma e A Star si Born L’ anno scorso quest’anno, da segnare come film di questa stagione cinematografica è Joker. Per la prima volta un film che attinge all’universo dei supereroi e prodotto da una major si trova in concorso.
Non un film di supereroi, ma un film duro, a tratti anche fastidioso e doloroso che guarda più a Taxi Driver (non a caso nel cast troviamo un Robert De Niro) e in generale al cinema anni 70.
Joaquin Phoenix è Arthur, un uomo affetto da disturbi psichici che sogna di fare il comico e di partecipare alla trasmissione condotta da Robert De Niro/Ed Sullivan.
Vive con la madre dei sobborghi di Gotham City, una città sporca, violenta e spaccata dalle diseguaglianze sociali.
È un emarginato che desidera essere capito e amato, ma nessuno lo comprende. È solo, spezzato, vuoto. È nella violenza trova il luogo dove potersi esprimere ed essere per la prima volta se stesso. Con quella risata dolorosa, diabolica e fastidiosa che non vi uscirà più dalle orecchie.
Perché è un film “rivoluzionario”
Perché racconta per la prima volta le origini di Joker come se fosse un amleto americano
Non ha nulla a che fare con i precedenti (Jack Nicholson, Heath Ledger, Jared Leto)
Perché nonostante sia un film ascrivibile all’universo “comics” non segue alcuna regola stilistica. Non ci sono battaglie, non c’è il bene contro il male. C’è un uomo che si confronta con se stesso e la sua follia, senza lezioni e moralismi ma con grande realtà
A grandi poteri corrispondono grandi responsabilità: questa è la massima che ha dominato ormai più di dieci anni di narrazione del Marvel Cinematic Universe e, anche se meno brillantemente, le trasposizioni cinematografiche del DC Universe. Il successo è dipeso dal fatto che i supereroi non ci sono stati presentati come banali e indistruttibili paladini del bene. Nel corso di questi anni, anzi, li abbiamo visti cadere, sopraffatti da emozioni umane troppo umane, perfino in crisi esistenziali sia adolescenziali sia “di mezza età” (dalla sindrome di Peter Pan di Tony Stark alla trasformazione di Thor in Endgame). Protagonisti delle trilogie più riuscite sono stati supereroi sull’orlo di una crisi di nervi, dominati da un Ego ipertrofico, in competizione tra loro anche nei momenti meno opportuni. Più che modelli e ideali irraggiungibili, essi hanno fotografato le nostre stesse difficoltà in uno specchio più accattivante. Spesso le loro storie ci hanno fatto ricordare che siamo noi stessi a creare i mostri dei quali abbiamo più paura. Ogni storyline si è costituita come una storia di riscatto, dove alla fine il singolo personaggio è riuscito a evolversi sconfiggendo, prima dei supercattivi, le proprie angosce più recondite. Tutto questo è stato possibile soprattutto perché nessuno di questi personaggi è stato un protagonista assoluto, individualista e accentratore, ma ha concepito il proprio progresso in concerto con gli altri. Le dinamiche relazionali dei personaggi hanno infatti conquistato la scena ancora di più delle sequenze dei combattimenti mozzafiato. Questo è stato il modo in cui una certa anima pop dell’Occidente si è rappresentata: come una squadra, e non come una serie di solisti. E proprio come l’epiteto attribuito al primo vero personaggio della storia occidentale, anche i nostri beniamini si sono rivelati essere anzitutto coloro “che hanno molto sofferto”. Ma si è andati oltre. Nel 2009 Zack Snyder aveva insistito sul lato oscuro dei supereroi con Watchmen, così come l’anticonvenzionale Deadpool ha conquistato la sua fetta di pubblico più adulta con la sua trivialità. Tuttavia, non avevamo mai visto sullo schermo un supereroe ontologicamente e profondamente cattivo. The Boys (ideata da Eric Kripke e disponibile su Amazon Prime) riporta i supereroi su un Olimpo inavvicinabile, che li separa nettamente dal resto dell’umanità. E di questi dei racconta l’inesorabile caduta. Lungi dal raffigurarli come indifferenti divinità che abitano un mondo altro, The Boys ci presenta i suoi supereroi come viziose superstar che, basandosi sulla loro reputazione sostenuta da un marketing e da un merchandising molto efficaci, non hanno alcun rispetto per la vita umana e incarnano il volto più inquietante del potere. Non si tratta di una classica distopia, in quanto costoro non sono al servizio del governo: (in)dipendenti di una società privata, la Vought, creano gli stessi problemi che sono poi chiamati a risolvere, senza alcuna considerazione degli eventuali danni collaterali. Ogni situazione di pericolo viene rappresentata e inserita in una narrazione manipolatoria che alimenta il successo e il potere di una ristretta minoranza della popolazione mondiale. I social media e il cinema sono il luogo dove questo spettacolo prende prepotentemente il posto della realtà: i supereroi che salvano in diretta su YouTube scuolabus e vittime del crimine sono gli stessi che poi interpretano il loro personaggio in una serie di pellicole che dominano il botteghino, in un vero e proprio dispositivo di potere autoreferenziale capace di nutrirsi delle sue stesse contraddizioni. Gli oppressi non sono il fine di questi supereroi, ma un semplice target da mantenere sintonizzato e pronto a consumare tutto ciò che ruota intorno alla loro promozione. E se Superman fosse cattivo? Quella che era una calunnia rivolta all’alter ego di Clark Kent qui trova invece una apparentemente angelica incarnazione in Homelander, il Patriota, colui che si presenta come il vero custode dei diritti e dei valori degli Stati Uniti d’America. E se le metafore politiche non mancano di certo, gli ideatori della serie hanno però preferito ricordarci che i protagonisti qui non sono i super, ma un gruppo eterogeneo di anti-supereroi che, con metodi poco ortodossi, vogliono rivelare il grande inganno. Il cui superpotere (almeno per ora) è soprattutto l’ostinazione.
E’ iniziata la 76esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.
Un’edizione straordinaria che brillerà di star. Già ieri sul red carpet hanno passeggiato Catherine Deneuve e Juliette Binoche, oggi ci saranno Brad Pitt e Scarlett Johansson.
Ma quali sono i 10 film che attendiamo di più? quando usciranno nelle sale italiane?
Ecco la mia personale top 5
AD ASTRA di James Gray- USCITA IN ITALIA 26 SETTEMBRE
con Brad Pitt, Liv Tyler, Tommy Lee Jones
Brad Pitt è un ingegnere spaziale della Nasa che viene incaricato di compiere una missione nello spazio. Solitario e felicemente sposato con Liv Tyler, aveva perso il padre (Tommy Lee Jones) 20 anni prima durante una spedizione su Nettuno dalla quale non era più tornato. Avrebbe dovuto ricercare extraterrestri, ma potrebbe essere ancora vivo per portare avanti esperimenti con materiale in grado di distruggere l’umanità e compromettere per sempre l’intero sistema.
PERCHE’ NON VEDIAMO L’ORA DI VEDERLO: si prospetta dal trailer un film di fantascienza esistenziale, con richiami a Kubrick (2001 Odissea nello spazio) e Apocalypse Now. Oltre ad essere il grande ritorno in un film da protagonista di Brad Pitt, è fimrato da James Gray, bravissimo regista dei sottovalutati Two Lovers e C’era una volta a New York con Marion Cotillard.
JOKER DI TODD PHILIPS- IN ITALIA ESCE IL 3 OTTOBRE
Nella Gotham City del 1981, Arthur Fleck è un aspirante cabarettista il cui scarso successo costringe di giorno a lavorare come pagliaccio. Alienato ed emarginato dalla società, nel tentativo di ribellarsi a questa sua esistenza finisce per dare il via a una serie di eventi che lo trasformeranno in una delle peggiori menti criminali che la storia di Gotham abbia mai visto.
PERCHE’ NON VEDIAMO L’ORA DI VEDERLO:
Joaquin Phoenix nei panni di uno dei cattivi più cattivi del mondo dei fumetti: JOKER. Per la prima volta un cinecomic di una major (Warner) accetta di presentarsi in concorso con una pellicola che molti invocano come il nuovo The dark night. Vietati però i confronti con l’incommensurabile Heath Ledger
MARRIAGE STORY di Noah Baumbach- IN USCITA IN AUTUNNO
Ha anticipato il regista: «Marriage Story è una storia d’amore che si rivela proprio durante la sua crisi. Volevo mostrare la relazione attraverso gli occhi di entrambi i personaggi. In ogni storia ci sono molti aspetti e il film abbraccia questi diversi punti di vista al fine di trovare la verità condivisa».
PERCHE’ NON VEDIAMO L’ORA DI VEDERLO
Scarlett Johansson e Adam Driver in una storia intima che trae spunto dall’esperienza dello stesso regista (che ora è compagno di Greta Gerwig). Noah è lo sceneggiatore storico di Wes Anderson. Super newyoerkese (di Brooklyn), super indipendente, specialista di commedie malinconiche che scavano col cesello, con ironia ma senza nascondersi, sentimenti ed emozioni.
EMA di Pablo Larrain- NON HA ANCORA DATA DI USCITA
Ema, giovane ballerina, decide di separarsi da Gastón dopo aver rinunciato a Polo, il figlio che avevano adottato ma che non sono stati in grado di crescere. Per le strade della città portuale di Valparaíso, la ragazza va alla ricerca disperata di storie d’amore che l’aiutino a superare il senso di colpa. Ma Ema ha anche un piano segreto per riprendersi tutto ciò che ha perduto.
PERCHE’ NON VEDIAMO L’ORA DI VEDERLO
Melodramma di musica e danza che arriva due anni dopo due film molto diversi l’uno dall’altro: Jackie e Neruda. Larrain è uno dei miei registi preferiti in assoluto e ho un debole fortissimo per Gael Garcia Bernal.
SEBERG di Benedict Andrews- NON HA ANCORA DATA DI USCITA
Ispirato a fatti realmente accaduti, il film narra la storia di Jean Seberg, protagonista di À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) e beniamina della Nouvelle Vague francese, che sul finire degli anni Sessanta finì nel mirino del programma di sorveglianza illegale dell’FBI, COINTELPRO. Il coinvolgimento politico e sentimentale dell’attrice con l’attivista per i diritti civili Hakim Jamal la rese un obiettivo dei tentativi spietati del Bureau di arrestare, screditare e denunciare il movimento del Black Power. Un giovane e ambizioso agente federale, Jack Solomon, viene incaricato di sorvegliare l’attrice; i destini dei due si troveranno a essere pericolosamente intrecciati.
PERCHE’ NON VEDIAMO L’ORA DI VEDERLO
Kristen Stewart, ex ragazza prodigio oggi giovane terribile del cinema americano, nei panni di uno dei più grandi misteri del cinema europeo. Jean Seberg volto della Nouvelle Vague, morta suicida nel 1979 “perchè non poteva più convivere con i suoi nervi”. Un film farà luce sulla sua vita, i rapporti con i Black Panther, le indagini sul suo conto da parte della FBI che le avrebbero, pezzo per pezzo, distrutto i nervi.
Come diceva una poesia di Dino Campana, riadattata dallo scultore Ugo Nespolo in uno dei monumenti più caratteristici e bizzarri di San Benedetto del Tronto, “lavorare, lavorare, lavorare preferisco il rumore del mare”.
Agosto è staccare, ascoltare la natura, il rumore del mare e anche, sì, dedicarsi al cinema e alla cultura. Tante rassegne in giro per l’Italia, una di queste è Incontri con l’autore.
Organizzata dall’entusiasmo di Mimmo Minuto, titolare, insieme alla moglie Elvira, della libreria La Bibliofila, nata nel 1974.
Da 38 anni Mimmo, con una lunga carriera alle spalle nel mondo dell’editoria, porta nel cuore dell’Adriatico i nomi più importanti del mondo dei libri, del giornalismo e dello spettacolo, per incontri che hanno il pregio di diventare chiacchierate sincere e profonde con gli autori. Un lavoro frutto di passione e amore per il territorio.
SAN BENEDETTO DEL TRONTO
7000 palme di specie diverse, alternate ad oleandri, per 4 km di costa. Sono i numeri dell’affascinante lungomare della cittadina. Ordinato, pulito, luogo perfetto per lunghe passeggiate a piedi o in bicicletta. Sull’orizzonte il mare azzurro.
Una cittadina viva e vivace, che si alimenta del mare ma che è anche altro. Tanti negozi, un centro storico dalle viuzze in cui perdersi fino ad arrivare nel punto più alto della città alla Torre dei Gualtieri, eretta nel XII secolo.
Lì sotto fino ai primi del Novecento arrivava il mare, che poi si è ritratto, dando la possibilità alla cittadina di espandersi con abitazioni e hotel. Uno di questi è L’Hotel Progresso perla in stile Liberty sorta nel 1923 quando lì, in mezzo a quella che ancora era solo sabbia, non c’era nessuno.
Oggi San Benedetto del Tronto è una località di villeggiatura che vive di mare, enogastronomia (carne o pesce, tutto è ottimo), eventi e, sì, anche cultura.
“Una piccola Miami” come l’ha definita Enrico Vanzina, amico del festival e appassionato della città marchigiana.
ELENCO DEGLI INCONTRI
Simona Sparaco il 13 agosto in Palazzina Azzurra con “Nel silenzio delle nostre parole”;
Enzo Iacchetti il 14 agosto in Palazzina Azzurra con “Diamo tempo al tempo…”;
Loredana Lipperini il 17 agosto al Circolo Nautico con “Magia nera”;
Antonella Boralevi il 20 agosto in Palazzina Azzurra con “Chiedi alla notte”;
Gianrico Carofiglio il 25 agosto in Piazza Sacconi con “La versione di Fenoglio”,
Daniela Missaglia il 27 agosto al Circolo Nautica Sambenedettese con “Crimini d’amore”,
Eliana Enne il 30 agosto all’Asilo Merlini con “Ricordi d’Inverno”.
Insomma un’ottima idea per una vacanza di relax, passeggiate, mare e buoni libri.
Questa settimana per il mercoledì al cinema, ospitiamo uno scrittore: Massimo Vitali che nel suo “Una vita al giorno”, Sperling e Kupfer, ci racconta come essere felici a partire dalle piccole cose che ci capitano ogni giorno.
A lui abbiamo chiesto i #FILMOMBRELLONE!
“Moonrise Kingdom” di Wes Anderson. In molti vorrebbero vivere la propria vita dentro un film di Wes Anderson e io non faccio differenza. Se non ci siete mai stati, quest’estate consiglio di andare in vacanza sull’Isola di New Penzance, New England, nel 1965.
“Nebraska” di Alexander Payne. Un film che insegna a tutti, addetti ai lavori e spettatori, come si può fare grande cinema senza budget straordinari, senza stupire con effetti speciali, senza scomodare attori famosi e senza nemmeno i colori.
Una volta l’estate erano i chiringuiti, le serate in discoteca, i bagni di mezzanotte… oggi… divano e serie tv!
Ecco le serie più attese e che ci sono piaciute di più. E voi che ne pensate?
Stranger Things 3 (disponibile su Netflix)
Davvero potente, divertente, splutter, horror, rocambolesca, nostalgica, entusiasmante questa stagione dello show dei The Duffer Brothers (due ragazzi del 1984 del Nord Carolina) che è diventato ormai un classico contemporaneo. Un cult a cui non si può prescindere, capace non solo di far scoprire gli anni Ottanta a chi gli anni Ottanta non li ha vissuti, ma di dare vita nuova al passato. Pare che la Coca Cola abbia rimesso in commercio la New Coke, flop del 1985 e che ora, dopo che Lucas l’ha bevuta avidamente, stia andando a ruba. Tante citazioni da Ritorno al Futuro a La storia infinita, la cui canzone protagonista di una scena commovente dell’ultimo episodio, Neverending stories cantata da Lihmal, ha raggiunto il record di visualizzazioni, con tanto di Neverending Challenge, una sfida di balletti, lanciata su Instagram da Millie Bobby Brown (la bellissima e bravissima Eleven) e accolta da fan del calibro di Jimmy Fellon e Stephen Colbert. Un successo inarrestabile.
Chernobyl (terminata su Sky)
Un successo straordinario anche per la miniserie della HBO considerata la miglior serie del 2019 che rivive con minuzie di particolari, realismo, umanità e pathos il disastro nucleare di Chernobyl del 1986, basandosi sui resoconti degli abitanti di Pripyat raccolti dalla scrittrice Premio Nobel per la letteratura Svetlana Alexievich nel suo libro Preghiera per Černobyl’. Nel cast stelle come Stellan Skarsgad, Jared Harris e Emily Watson.
Il successo sta nella forma di racconto che fa della suspance il suo punto cardine: tutti sappiamo come andrà a finire ma rimaniamo impietriti di fronte all’accatastarsi di menzogne, bugie, coperture di notizie, difesa dei ruoli. Suspance unita a empatia verso tutti i personaggi, dalla moglie del portiere a Legasov.
Rumors (e teorie dei fan) fanno intendere che, dato che la prossima stagione di Stranger Things sarà ambientata nel 1986 e chi ha visto tutta la stagione sa che i legami con l’USSR sono molti forti, ci sarà un legame tra Sottosopra e Chernobyl. Ma abbiamo fiducia che i Duffer Brothers, qualora decidessero di realizzare un legame così rischioso tra realtà e finzione, lo faranno al meglio.
Orange is the new black 7 (disponibile dal 27 luglio con un episodio a settimana su Infinity)
Di certo una delle serie più amate e iconiche degli ultimi anni, che ha retto il tempo e il numero di stagioni, riprendendosi brillantemente nelle ultime due, che oggi arriva a 7. La stagione che dovrebbe segnare l’epico epilogo. Una serie tutta al femminile, nata in tempi non sospetti, che ci ha fatto ridere, piangere ed emozionare e soprattutto ha reso un colore, l’arancione, il simbolo del cambiamento, raccontando con realismo la vita delle donne in carcere. Il trailer ci racconta di una Piper (Taylor Schilling) che cerca di adattarsi alla vita fuori dal carcere nonostante l’attrazione verso quelle sbarre che forse l’hanno fatta sentire più libera di quanto sia mai stata sia tanta. Il suo grande amore Max (Laura Prepon) è ancora lì, così come le altre detenute che tirano le fila delle loro vite ed esistenze. Taystee (Danielle Brooks) sta per essere processata per la morte di Piscatella e la sua amicizia con Cindy è sempre più in bilico. Tornano anche le altre protagoniste Uzo Aduba, Kate Mulgrew e Natasha Lyonne, quest’ultima lanciata propria da questa serie e poi divenuta mente e volto dietro a Russian Doll (che vi consigliamo di recuperare se non lo avete già visto). Siete pronti al finale?
BIG LITTLE LIES
(in onda, su Sky)
Varrebbe la pena guardare questa miniserie già solo per il cast d’eccezione: Nicole Kidman, Reese Whiterspoon, Laura Dern, nella seconda stagione anche Meryl Streep. Ormai siamo abituati alla narrazione del femminile, non più relegato solamente a ruoli secondari o di sostegno. Spesso le storie che hanno più successo sono quelle dove ci viene presentata una donna emancipata, di successo, sia professionalmente sia caratterialmente. E invece nella cornice apparentemente paradisiaca di Monterey ci immergiamo nella quotidianità di madri borghesi che hanno dovuto rinunciare ai propri sogni per il presunto bene dei loro figli: a lavorare, al college, a una normale vita sentimentale. Uno sguardo al secondo sesso contemporaneo (per dirla con Simone de Beauvoir) che se da un lato attende e ricerca il proprio riscatto dall’altro istituisce una sorta di comunità matriarcale dove vigono solidarietà, complicità, perfino omertà.
GOOD OMENS
(terminata, su Amazon Prime)
Un po’ Dogma un po’ American Gods, la miniserie tratta dal libro di Gaiman e Pratchett non ha convinto proprio tutti per il suo caotico strabordare di sottotrame e personaggi secondari. Tuttavia, l’alchimia che si crea tra i due protagonisti, l’arcangelo Aziraphale e il demone Crowley, amici di nascosto fin dalla cacciata di Adamo ed Eva dal giardino dell’Eden, fa perdonare le imperfezioni di questa Apocalisse raccontata con humor inglese. L’apparato simbolico dell’Apocalisse giovannea si mescola continuamente con i miti della religione secolarizzata contemporanea, dalle bestie bibliche alle canzoni dei Queen, dalle gerarchie celesti a una Bentley che sfreccia nell’Oxfordshire. In scena l’eterna dialettica tra destino e libero arbitrio, tra possibilità di prevedere la storia e l’interferenza del caso e della volontà (più o meno) umana, che fino alla fine rimane sospesa: l’improbabile coppia Aziraphale-Crowley riuscirà a sventare l’Apocalisse programmata da millenni? O forse il suo fallimento rientra in qualche piano divino? (Da non perdere Frances McDormand che interpreta la voce del Signore e il cameo di Benedict Cumberbatch nei panni di Satana).
LA CASA DI CARTA
(in uscita, su Netflix)
Come spiegare il successo della prima e della seconda stagione di questa serie spagnola, che spesso “parla” il linguaggio della telenovela? Non è solo il susseguirsi dei continui colpi di scena che tiene attaccati al piccolo schermo, né perché in fondo stiamo sempre dalla parte di chi attacca il sistema e ancora crede di potersi ribellare (non a caso la banda del Professore è stata paragonata agli Indignados). Il vero pregio di questa serie è la caratterizzazione psicologica e relazionale dei personaggi, che si scontrano non solo con le difficili scelte di un presente incerto e pericoloso, ma anche con il proprio passato e, soprattutto, con la propria idea di futuro. Personaggi ricchi di contraddizioni, come dimostrano le tensioni sociali e culturali delle città che scelgono come falso nome (abbiamo l’impetuosa giovinezza di Rio, il sangue freddo di Berlino, la caotica intraprendenza di Tokyo, e così via). Tra il capo di questa squadra mascherata da Salvador Dalì (che di eccentricità e trasformismo se ne intendeva) e la forza istituzionale della polizia si intreccia un rapporto basato sui reciproci tentativi di trasformare il proprio rivale in una preda. Ma, anche, di convertire la propria vittima in complice, o, addirittura, amante. In questo gioco di ruoli, anche lo spettatore diventa inevitabilmente un membro della squadra. Basta solo scegliere un nome in codice.
Esce il 21 Agosto la versione live- action del classico della Disney, con gli animali realizzati in CGI. Nella versione italiana, le voci di Simba e Nala sono Marco Mengoni ed Elisa. Massimo Popolizio è Scar, Luca Ward Mufasa ed Edoardo Leo e Stefano Fresi in Timon e Pumbaa.
È impossibile rimanere indifferenti, con gli occhi asciutti e la voglia di criticare. La versione live- action de Il Re Leone firmata da Jon Favreu non brilla per originalità, ok, ma è un magnifico compito che offre criniere, zampe e denti ad un classico insuperabile.
Bastano i primi due minuti della colonna sonora che Hans Zimmer aveva composto nel 1994 per ritornare alle elementari, seduti al cinema coi pop corn.
Oggi lo sappiamo già, che Mufasa non ce la fa a salvarsi mentre salva Simba. Lo sappiamo che Scar è cattivo e che si allea con le iene, ma non ci importa, tifiamo per il coraggioso papà leone lo stesso, in quel meraviglioso cerchio della vita che con le alucce degli insetti e gli escrementi di giraffa, sembra un documentario della National Geographic.
E va bene che dobbiamo criticare tutto. Dire che il film è la copia carbone. Lo è. Ma il cinema è anche e soprattutto emozione, che qui rimane intatta. E ci ricorda che un po’ di Akunamata come esercizio quotidiano può aiutarci a diventare dei re leoni migliori.