di Marta Perego con opinione cinefilosofica di Maria Russo
(questo articolo contiene spoiler)
Carol Denvers conquista il boxoffice e segna una linea, come aveva fatto nel mondo dei cartoon Elsa di Frozen qualche anno fa- principessa che non ha bisogno del principe che ha raggiunto il cuore di milioni di bambine e bambini-, nel racconto del “femminile” in una saga cinematografica.
Pilota di aerei, che si veste con la tuta, tenera e materna con la figlia della sua amica del cuore, ma che diventa, alla fine, la più forte di tutti, indipendentemente dal suo essere femmina.
Ha poteri da far impallidire qualsiasi alieno Skrull le si trovi di fronte (che poi chi sembra brutto e cattivo, si rivela il più buono di tutti, l’importante è andare oltre le apparenze) e non abbiamo dubbi che, in Avengers Endgame, in uscita nelle sale il 24 aprile, darà del filo da torcere al terribile Thanos.
Captain Marvel è la perfetta interpretazione dei tempi che corrono, in cui il maschile e il femminile si intrecciano. Non vuole essere maschio, né rivendica il suo essere femmina, Carol Denvers è semplicemente se stessa che, indipendentemente dal genere, supera i suoi limiti e trova la sua forza nelle sue debolezze. E non è un caso che nei fumetti Captain Marvel (o Mar-Vell) sia stato, nella storia, sia maschio, in origine, che femmina, in una soluzione di continuità come se fosse l’alter ego comics dell’Orlando di Virginia Woolf.
I numeri al box office parlano chiaro. Si classifica, con 153,3 milioni di dollari, al secondo posto come miglior esordio nelle sale nella storia dei cinecomic, seguendo Black Panther, altro blockbuster che lotta contro le differenze.
Questo weekend si prepara a raggiungere i 900 milioni di dollari incassati nel mondo, superando il Wonder Woman di Patty Jenkins del 2017, che si era fermato a 820.
A differenza di WW, Captain Marvel, però, non è un manifesto dell’indipendenza femminile. Non è l’Amazzone con la gonna che reclama il suo ruolo divino contro il maschio.
E’ una supereroina in cui il genere diventa un accessorio. Migliore amica di gatti alieni, creatrice, insieme a Nick Fury, dello S.H.I.E.L.D. Una donna che ha saputo resistere, persino, alle lusinghe di un potente kree con la faccia di Jude Law.
Al di là del genere, al di là dei colori (lei è comunque l’unica bianca in mezzo agli uomini blu), al di là dei pregiudizi.
OPINIONE CINEFILOSOFICA DI MARIA RUSSO
Carol Denvers non è una femme fatale in cerca di riscatto, come l’ingannevole Vedova Nera o la tormentata Gamora, né una ragazza fragile con superpoteri che le creano più problemi che opportunità, come Wanda/Scarlet Witch, né tanto meno una divinità algida e irraggiungibile come Wonder Woman nell’Universo DC. Nonostante sembri più forte perfino di Thor, Carol Denvers è un’eroina assolutamente umana (anche perché, forse, il gatto Goose, a metà strada tra Top Gun e un’inquietante creatura aliena, è un supereroe ancora più forte di Captain Marvel). I superpoteri costituiscono l’aspetto più superficiale della sua personalità; parafrasando Spiderman, non sono i suoi grandi poteri a comportare le sue grandi responsabilità.
Come ci viene mostrato più volte, il vero superpotere di Carol è quello di riuscire a rialzarsi sempre, nonostante i fallimenti e le parole poco incoraggianti che le sono state rivolte da rappresentanti dell’universo maschile – suo padre, i compagni di gioco quando era piccola, i piloti sessisti. Se si esclude l’amicizia con Nick Fury, con il quale entra davvero in una relazione di rispetto e di riconoscimento, l’autenticità in questo film è riservata all’universo femminile. C’è nel rapporto di stima con la sua prima mentore, c’è soprattutto nella sua amicizia con Maria, pilota dell’esercito e ragazza madre, che la aiuta a (ri)trovare se stessa. Una simile solidarietà femminile non era mai stata raccontata nell’Universo Marvel –anzi, a parte i dialoghi tra le sorelle Gamora e Nebula, spesso i personaggi femminili non dialogano proprio tra di loro, ma si caratterizzano soprattutto a partire dalla loro relazione con un uomo. L’emancipazione di Carol, infatti, si completa nel suo congedo dal Colonnello Yon-Rogg interpretato da Jude Law, un Kree che la rapisce convincendola però di averle salvato la vita – una metafora delle tante dinamiche che si instaurano nei rapporti di forza e di potere. Tutto questo senza scadere, per fortuna, nelle derive più partigiane e ideologiche di una certa frangia del Metoo.
Se all’inizio del film Carol è in competizione con il suo superiore, in un rapporto gerarchico dove lui la convince sempre di essere inferiore perché lei non saprebbe dominare le sue emozioni, nel finale lei riesce a dirgli “io non ti devo dimostrare niente”. È questo il colpo più forte di Carol Denvers. Individuarsi come soggetto femminile che non deve dimostrare qualcosa all’universo maschile, non deve essere più brava per poter ottenere attenzione, non deve mostrare il proprio valore in una sfida tra sessi che spesso termina con la rinuncia di alcune caratteristiche del femminile pur di ottenere l’accettazione. Ribellandosi al Colonnello Yon-Rogg che sostiene di averla resa (lui, certamente) la migliore versione di se stessa, Carol Denvers si riconosce e decide di non essere più l’oggetto della valutazione dell’altro. Perché, in fondo, Captain Marvel non si nasce, ma si diventa.
Tiger, il gatto di Maria Russo, sosia certificato di Goose